Cessione d’azienda: certificato carichi fiscali pendenti

Cessionario d’azienda «penalizzato» senza certificato dei carichi pendenti: la Cassazione afferma che i limiti alla solidarietà per sanzioni e imposte operano solo se c’è il certificato.

La Corte di Cassazione, con la sentenza del 14 marzo 2014 n. 5979, si è occupata di un importante argomento sul quale, tuttavia, non sono molti gli interventi della giurisprudenza: la responsabilità solidale per imposte e sanzioni del cessionario di azienda.
Un breve riepilogo della normativa può essere utile per comprendere i principi affermati dalla Corte.
L’art. 14 comma 1 del DLgs. 472/97 stabilisce che, nella cessione di azienda, il cessionario è responsabile solidale per i debiti fiscali del cedente relativi all’anno della cessione e dei due antecedenti, e per i debiti contestati con atto dell’Amministrazione finanziaria anche se relativi a periodi anteriori (detti limiti non si applicano alla cessione eseguita in frode al Fisco).
Il secondo comma afferma però che “l’obbligazione del cessionario è limitata al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell’amministrazione finanziaria e degli enti preposti all’accertamento dei tributi di loro competenza”.
A sua volta, il comma terzo stabilisce che il certificato concerne l’esistenza di “contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati soddisfatti”, e che esso ha effetto liberatorio.
Con l’eccezione della cessione di azienda in frode al Fisco, dalla norma si evince che la responsabilità solidale del cessionario è limitata ai debiti dell’anno in cui la cessione è avvenuta e dei due antecedenti, oppure degli anni anteriori se già contenuti ad esempio in un accertamento.
Detto limite, secondo la Cassazione, non opera quando il cessionario non si è attivato presso gli uffici dell’ente impositore per ottenere il certificato sull’esistenza dei carichi fiscali pendenti, che ha pure efficacia liberatoria.
Nel principio di diritto enunciato nel punto 7.5 della sentenza si sostiene che la responsabilità del cessionario è strutturata “secondo un criterio incentivante volto a premiare la diligenza del soggetto cessionario nell’acquisire dagli Uffici finanziari, prima della conclusione del negozio traslativo, le informazioni sulla posizione debitoria del soggetto cedente nei confronti del Fisco”.
Nel certificato entrano anche i “PVC”
Quindi, in base a tale interpretazione, se il cessionario non chiede il certificato di cui sopra, non solo non si verifica l’effetto liberatorio, ma nemmeno operano i limiti alla sua responsabilità prima indicati.
Sempre eccettuata l’ipotesi della cessione in frode al Fisco, rimangono in ogni caso fermi gli altri limiti imposti dall’art. 14 del DLgs. 472/97: pertanto, la responsabilità solidale del cessionario deve essere intesa entro il perimetro del valore dell’azienda o del ramo di azienda, ed è fatta salva la preventiva escussione del cedente.
Come anticipato, il certificato deve riguardare l’esistenza di “contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati soddisfatti”: tale locuzione comprende, secondo la Corte, sia gli accertamenti ancora non definitivi ad esempio perché impugnati sia gli atti di “constatazione” dell’infrazione o del presupposto impositivo (punto 7.4 della sentenza).
Proprio quest’ultima affermazione finisce con l’avallare quanto a suo tempo espresso dal Ministero delle Finanze con la circolare 180 del 1998: anche i “PVC” rientrano tra gli atti “interessati” dal certificato.
In virtù di ciò, potrebbero emergere problemi nell’individuazione del limite di responsabilità del cessionario quando le violazioni sono constatate nel verbale ma la Finanza o l’Agenzia delle Entrate, per qualsiasi motivo, non abbiano quantificato correttamente la pretesa (ancora soggetta a modifiche ad opera dell’ente preposto all’accertamento), magari omettendo il riconoscimento di costi o di perdite.

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